Paolo Pedroni è nato a Brescia nel 1983. Le sue prime opere d’arte sono state create in strada, quali spray graffiti e street art sulle mura dei sobborghi bresciani mentre i suoi dipinti su tela sono oggi esposti e collezionati a livello internazionale.
Diplomato all’European Institute of Design nel 2005, pur lavorando nel campo del design non ha mai dimenticato la sua innata passione per la pittura e per il disegno, che lo hanno reso uno dei maggior artisti italiani del movimento del Pop Surrealism. I personaggi di Pedroni sono figure simili a bambini, circondati dagli oggetti dell’infanzia, colorati soffici, e descritti con la più sofisticata tecnica pittorica. L’Artista sfida sé stesso e le sue capacità, lavorando su formati sempre più grandi, giungendo ad un risultato che è colmo fino al limite di immagini, un horror vacui ispirato dallo stile di Murakami, che Pedroni esegue con una tecnica allo stesso tempo iper-realistica, zuccherina ed estremamente elaborata e raffinata.
I dipinti di Paolo Pedroni sono il risultato della fervida immaginazione e della profonda sensibilità dell’artista, riversata su tela. Il suo immaginario spazia dalla dolce amara narrazione di una favola dedicata alla Fragilità, alla netta condanna del consumismo che caratterizza i nostri tempi e che “ci rende tutti vittime”, con un chiaro riferimento alle problematiche legate ai Social media.
DCG: La tua serie "Altered Vision" naviga audacemente nei temi dell'eccesso e dell'accumulo. Cosa ha scatenato questa esplorazione e come percepisci il tessuto della società contemporanea?
PP: L’attrazione verso questo tema viene dall’osservazione della vita di tutti i giorni, nella quotidianità siamo bombardati di stimoli e messaggi più o meno subliminali. Il consumismo ormai fa parte delle nostre giornate e senza rendercene conto desideriamo cose perché pensiamo di averne bisogno, vogliamo un determinato oggetto, accessorio ecc. pensando ci renda migliori , ci possa definire, colmare un vuoto o farci sentire più accettati dagli altri.
DCG: In un'epoca in cui la digitalizzazione è onnipresente soprattutto nell’arte, come valuti il suo ruolo nel favorire la dipendenza da schermo e il malessere del consumismo, specialmente dalla prospettiva di qualcuno immerso nell'arte digitale?
PP: Credo la digitalizzazione giochi un ruolo fondamentale nell’ alimentare il consumismo, ormai è tutto alla portata di un click. Specialmente i social media e chi con questi mezzi lavora propongono standard che spesso risultano inarrivabili, per chi segue questi modelli credo ci sia una sorta di venerazione e insieme senso di frustrazione cio non fanno altro che aumentare la fame di possesso, fama ecc.
DCG: Man mano che ci addentriamo ulteriormente nell'era digitale, con l'AI che ridefinisce i confini, come vedi il suo impatto sull'essenza dell'arte e della creatività? In quali modi pensi che sfidi o arricchisca il panorama artistico?
PP: L’intelligenza artificiale fa un po’ paura, specialmente nell’arte credo che non abbia molto senso, l’arte per quanto mi riguarda credo nasca da una necessità di esprimersi se manca la scintilla creativa mossa da questo non so quanto valore possa avere. Innegabile che che sia un gioco divertente, si vedano delle cose visivamente molto belle e stimolanti ma purtroppo vuote.
DCG: L'orso, una figura ricorrente nelle tue opere, suscita curiosità sul suo significato più profondo. Allo stesso modo da dove nasce la scelta e l’ispirazione per le creature fantastiche che costellano le tue mostre?
PP: Il teddy bear è un certamente un simbolo dell’infanzia, così come può esserlo una bambola o una macchinina. se ci pensiamo i giocattoli sono i primi oggetti ai quali nel corso della vita possiamo attribuire un valore affettivo o un ricordo,ma sono anche i primi a stimolare il desiderio di possesso. Nei miei dipinti ci sono molti pupazzi, giocattoli e dolci che rappresentano proprio quei primi infantili e inconsapevoli desiri di avere sempre si più.
DCG: Il motivo ricorrente dell'occhio nella tua arte apre dialoghi intriganti. Potresti approfondire il suo significato simbolico e come questo si propone di colmare il divario tra l'opera d'arte e il suo osservatore?
PP: Ho sempre disegnato occhi, è quel “soggetto” che disegnavo durante una conversazione al telefono o annoiato a lezione ai tempi del liceo. In questa serie dedicata alla vista e alla percezione più che mai gli occhi nei dipinti sono la chiave di lettura per interpretare le opere. I nostri occhi ci permettono di osservare e capire il mondo ed è paradossale pensare come qualcosa che ci serva per vedere al di fuori di noi in realtà per chi li guarda possano far capire così tanto di quello che invece sta al nostro interno.
DCG: La palette della tua collezione "Altered Vision" è sorprendente, con tonalità di rosa profonde e predominanti. Puoi raccontarci come queste decisioni cromatiche guidano la narrazione e cosa simboleggiano all'interno della narrativa più ampia del tuo lavoro?
PP: Ho sempre voluto utilizzare questa palette e questa mi sembrava l’occasione più adatta, non solo per indagare ogni sfumatura del rosa ma anche perché comunemente questo colore è legato a qualcosa leggero e frivolo. I toni zuccherosi della palette trovo si sposino bene con il concetto del superfluo dando agli oggetti una sostanza più innocente aumentando il contrasto tra la critica al consumismo e la dolcezza della resa cromatica.