Un progetto espositivo. Due capitoli. La stessa visione del flusso immaginifico.
Quattordici artisti accompagnano le direzioni dello sguardo “oltraggioso”. Dorothy Circus Gallery e Gianluca Marziani guidano concetti e incroci estetici per la prima mostra di un nuovissimo spazio espositivo. Siamo a Roma con una concept-gallery di ultima generazione dalle idee chiare e dall’identità altrettanto chiara: indagare specifici territori linguistici, orientabili tra pop surrealism e lowbrow, figurazione estrema e realtà pittoriche indipendenti. A tenere i fili di Dorothy Circus ecco Alexandra Mazzanti e Jonathan Pannacciò, anime complementari che hanno ideato il progetto nella sua complessità tematica e curatoriale. Un occhio internazionale e antagonista che attraverserà i continenti sul filo rosso di una nuova e crudele bellezza.
Si parte con STORIES FROM THE WONDERLAND: molteplici visioni dentro universi in cui ogni artista ritrova la sua geografia elettiva. Variano le atmosfere, gli stili, il carico emotivo, la tensione psicanalitica. Non cambia tra gli artisti la volontà di raccontarci altri piani del reale, territori ulteriori che appartengono ai surrealismi insinuanti della mente. Il mondo esterno diventa così un luogo impervio e imprevedibile, attraente e respingente, miscuglio di crudele e sublime, normale e assurdo, morbido e spigoloso. Giorno e notte si compenetrano in una fusione di sentimenti e attitudini: ogni cosa contiene qui il suo doppio e molto di più, richiama il reale con regole proprie e riconoscibili. Nel paese delle meraviglie le apparenze ingannano e gli inganni superano le molte apparenze…
Wonderland come luogo ideale dove si metabolizzano le paure ancestrali, il viaggio onirico, gli archetipi dell’infanzia, le aspirazioni oltre le piattezze del quotidiano. Wonderland come territorio d’accoglienza per coloro che rileggono la storia, gli eventi quotidiani, i piccoli e grandi drammi sociali. Wonderland come metageografia in cui individuo e società si fondono nelle visioni morali di una pittura emozionale, classica e al contempo dissacrante, ben congegnata per tecnica e soluzioni, oltre il vincolo limitante dei generi.
STORIES FROM THE WONDERLAND è un complesso introdursi in una pittura che rispecchia lo spirito più contaminato del nostro tempo. Diverse ipotesi figurative che mostrano la visionarietà e il suo plausibile realismo. Paesaggi, corpi, animali, storie, natura, oggetti: il mondo si misura con la cifra metabolica degli artisti, tutto somiglia al reale eppure percepisci atmosfere sospese, un senso di attesa spasmodica e silenziosa, di dubbio o pericolo, di silenzi anormali o strani rumori in arrivo.
Questi gli artisti della prima tappa: Jonathan Viner, Sarah Joncas, Aaron Jasinski, Sergio Mora, Andy Fluon Jonathan Pannacciò, Nathan Spoor
Jonathan Viner vede il mondo con una piega narrativa tra il dark e il noir, regalandoci un luogo riconoscibile ma fuori registro, appena oltre il cronachismo del quotidiano. Scoviamo timide fanciulle dalle pelli draculesche, corpi fragili e timidi, sguardi chiusi o poco evasivi, ragazzi che sembrano generosi martiri urbani. Scorre nei quadri una timidezza consapevole, la paura dell’ignoto, la voglia di parlare coi propri fantasmi amichevoli. L’umanità di Viner osserva il teatro crudele della realtà con impassibile e rigorosa virtù. Un’atmosfera a basso voltaggio agonistico in cui senti la pulsazione interiore, la battaglia sottopelle, i fuochi tra spirito e cuore. Un piccolo mondo moderno dietro l’angolo del reale. Una scarica paranoica dove l’impossibile diventa storia.
Sarah Joncas inventa ragazze che assumono sul corpo l’identità del mondo esterno, diventando protesi e completamento del reale, mimetizzandosi attraverso la pura attinenza del proprio essere. Sirene meditabonde, romantiche sognatrici, giovani tatuate dal corpo filiforme, gemelle siamesi, sinuose dark ladies, eleganti suicide girls… assistiamo al rito silenzioso di una femminilità che sente il richiamo metafisico della purezza naturale, che cerca lo spazio della mente dentro le forme ambigue della città. Sono donne affascinanti, indipendenti senza nulla dei canoni femministi. Semmai, ricordano le protagoniste di certi romanzi posturbani alla James G. Ballard: silenziose ma spietate sotto la superficie elegante della propria quieta apparenza.
Aaron Jasinski ci incanta col suo realismo poetico in cui si nascondono ambiguità, derive, eccessi ancora plausibili. Difficile circoscriverlo dentro un genere, un po’ come accade coi migliori protagonisti di un pop surrealism dai liberi confini e dagli accostamenti impavidi. Bambini e ragazzini sono al centro delle scene. Alzano la tensione per una libertà conquistata attraverso il gioco, la battaglia senza sangue, l’attacco di puro divertimento. Tutto si anima attorno alla loro contagiosa energia, finché animali, robot, giocattoli e uccelli occhiuti sembrano preda di un’improvvisa accelerazione collettiva. Quei ragazzini in azione emanano l’energia dei giusti ma soli, a ricordarci la valenza adulta del gioco in un mondo di comparse pericolose (gli adulti) e gentili apparizioni (bambini e altri figli dell’istinto).
Sergio Mora mescola fiaba, cultura circense, erotismo, cronaca e mitologie popolari, ricreando un mondo rovesciato che metabolizza la lezione iconografica di Mark Ryden in versione più mediterranea e altrettanto “politica”. Ecco svariati elementi simbolici (l’uovo, le orecchie da coniglio, la rosa, l’occhio, lo scheletro) quali archetipi allargati di un surrealismo in stile Pixar, ironico per vocazione ma duro nei risvolti morali. Uno sguardo “politico” che dimostra la pulizia sacrale di una pittura bella e dirompente, puro sussulto surreale per stuzzicare le troppe fobie nei confronti dei bambini. I protagonisti di Mora ribadiscono la forza onesta dei piccoli, la qualità del loro linguaggio, l’attitudine istintiva nel vivere con sguardo panoramico. Dopo averne captato l’essenza interiore, le assurdità surreali si trasformano in un viaggio parallelo nella bellezza dei gesti liberi.
Andy Fluon, con stile superflat e colori radicalmente fluo, combina frammenti variabili, citazioni, icone da copertina, feticci e altri spunti del suo divagante valigione figurativo. In bella sintonia con il lato creativo musicale, la pittura di Andy crea raccordi armonici tra le zone luminose del suo immaginario. Mescola i corpi dell’erotismo con le visioni da fumetto, la storia dell’arte con la fiaba e il burlesque, i dettagli in stile Warhol con le astrazioni dei pattern lisergici. Un modello iperpop che esagera nei toni acidi, nelle distonie di gamma, nel conflitto cromatico dalle insospettate e lucide armonie. Un gioco di memorie americane (Andy Warhol, James Rosenquist, Tom Wesselmann) ma anche di cultura grafica anni Sessanta e Settanta, immaginario televisivo, design anni Ottanta tra Memphis e Alchimia. Un territorio dove il colore ritrova la sua essenza contemporanea.
Jonathan Pannacciò ricrea superfici enigmatiche e visionarie, una sorta di pattern organici che pulsano tra realtà figurativa e deriva astratta. La matrice è flat per attitudine e stile, pulita nel le stesure, nei contorni netti, nella determinazione luminosa del colore. Il risultato ha un immediato impatto astratto e una successiva ambiguità semantica. Quello di Pannacciò è un paesaggio chimico della mente, una sintesi che formalizza alcune idee tra forma plastica e sonora. Le forme hanno una pulsazione interna, sembrano muoversi come dettagli ingranditi di un micropaesaggio organico. Finché oggi entrano in campo alcuni elementi di chiara superficie figurativa, quasi ad esasperare l’ambigua fisionomia tra chiarezza e sintesi astratta. Il paesaggio organico si trasforma in una geografia realistica e quotidiana, simbolica e captabile. A conferma di un irrefrenabile dinamismo tra cervello e mondo esterno.
Nathan Spoor elabora paesaggi enigmatici che ci impongono il dubbio sul “cosa” stiamo vedendo e sul “come” guardiamo le immagini. Il suo territorio wonderland assume posizioni radicali per capacità visionaria e astrazione narrativa. Gli spazi sembrano giardini di Compton House dove il simbolismo postmoderno di Peter Greenaway si fonde con invenzioni da tipica identità surrealista. Viene da pensare agli esterni aristocratici di Paul Delvaux, a un paesaggio o rdinato dove le alterazioni arrivano da corpi estranei, da visitatori curiosi, dai segnali di un passaggio avvenuto o di un evento fuoricampo. Spoor ci catapulta in un mondo di simbolismi alieni e metafore extraterritoriali, al confine enigmatico tra memoria terrena e visione di qualche pianeta lontano. La sua è una galassia surreale che ci calamita coi suoi misteri sondabili.
Buon viaggio. E che la meraviglia sia sempre con Voi…